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dimecres, 19 de setembre del 2012

Antonio Gramsci, alle radici di un dissenso


Rilevanti novita storiografiche nel saggio di Giuseppe Vacca sul rivoluzionario sardo
di GIORGIO MACCIOTTA
La ricerca di Giuseppe Vacca sul pensatore sardo si conclude con un volume ("Vita e pensiero di Antonio Gramsci", Einaudi Storia, 370 pagine, 33,00 euro) denso e complesso nel quale l'autore riannoda i mille fili di una preziosa eredità intellettuale e politica.
Come Vacca dichiara in premessa il suo compito è stato possibile per "una mole di lavoro e di ricerche che nessuno avrebbe potuto compiere da solo": dalla "pionieristica ricerca" di Spriano, sulla storia del PCI, allo scavo di Natoli, che ha ricostruito la triangolazione tra Gramsci, la cognata Tania e l'economista Piero Sraffa, che, come documenta Togliatti in una sua lettera, consentivano "il traffico epistolare" di Gramsci e il suo collegamento con il mondo esterno.
Dopo questi lavori Vacca ha ritenuto fosse ormai possibile e "necessario ricostruire l'unità di teoria e biografia" e che, per la biografia di una personalità con un'esperienza così tormentata, fosse indispensabile intrecciare i dati più tipicamente biografici con quelli del percorso intellettuale: i "Quaderni", le numerose lettere di (e a) Gramsci e, insieme, quelle di coloro (in primo luogo l'amico, e prestigioso economista, Piero Sraffa e la cognata Tania) che furono i suoi tramiti con il "mondo grande e terribile" negli anni di detenzione e nel tormentato periodo di libertà vigilata.
Non è possibile dar conto di tutte le piste che l'autore segue, fornendo risposte argomentate e, a mio parere, convincenti ai numerosi interrogativi che in questi anni hanno accompagnato la riflessione su Gramsci e sull'organizzazione politica che egli contribui a costruire.
Vale la pena concentrarsi sulla ricostruzione che Vacca dedica alla critica, sempre più consapevole e serrata, che il pensatore sardo rivolge alla sclerosi burocratica del "primo stato socialista", al rozzo economicismo che segna l'esperienza politica dell'Unione sovietica e, conseguentemente, dell'Internazionale comunista.
Si tratta di elaborazioni che sottopongono a critica non solo la degenerazione staliniana ma l'intera esperienza del partito russo, ivi compresa quella di personalità che, in tempi diversi, furono vittime della drammatica guerra interna al PCb (da Trotski a Zinoviev a Bucharin).
Una elaborazione che culmina, nei "Quaderni", con la critica alla "rigida avversione di principio ai così detti compromessi" e alla "concezione su cui si fonda tale avversione (fondata sulla) convinzione ferrea che esistano per lo sviluppo storico leggi obbiettive dello stesso carattere delle leggi naturali, con in più la persuasione di un finalismo fatalistico (...per cui...) le condizioni favorevoli dovranno fatalmente verificarsi ... (Da ciò deriva) l'inutilità, non solo, ma il danno, di ogni iniziativa volontaria tendente a predisporre queste situazioni secondo un piano." Gramsci sosteneva, invece, che "una iniziativa politica appropriata è sempre necessaria per liberare la spinta economica dalle pastoie della politica tradizionale, per mutare cioè la direzione di certe forze che è necessario assorbire per realizzare un nuovo, omogeneo, senza contraddizioni interne, blocco storico economico-politico, e poiché due forze 'simili' non possono fondersi in un organismo nuovo che attraverso una serie di compromessi o con la forza delle armi (e quest'ultima) può essere impiegata contro i nemici, non contro una parte di se stessi che si vuole rapidamente assimilare e di cui occorre la 'buona volontà' e 'l'entusiasmo' se ne deduce che la coercizione è una pura ipotesi metodica e l'unica possibilità è il compromesso".
E in una lettera a Sraffa Gramsci, anticipando la sua elaborazione sul ruolo degli intellettuali, delineava una concezione dello Stato non "come società politica (o dittatura o apparato coercitivo …)" ma "come un equilibrio della Società politica con la Società civile". "Non è chi non veda, scrive Vacca, come il punto d'arrivo della teoria dell'egemonia (è) una nuova concezione dello Stato, che confutava quella del bolscevismo, vale a dire uno dei pilastri su cui poggiava l'intero edificio dell'internazionale comunista."
Vacca fornisce una puntigliosa ricostruzione del percorso di questa elaborazione e ne retrodata l'origine fin dalla lettera con la quale Gramsci polemizza, nel 1926, contro le modalità dello scontro interno al PCb (e all'Internazionale comunista) criticando non solo le parole d'ordine di "sinistra" della "rivoluzione permanente" ma anche le basi teoriche sulle quali la maggioranza del partito comunista russo impiantava la teoria del "socialismo in un solo paese". Gramsci, scrive Vacca (sulla base di vari scritti del 1926), partiva da una "analisi differenziata delle situazioni di stabilità e instabilità dei paesi europei, nelle quali l'elemento determinante non è l'andamento dell'economia, ma il consolidarsi o l'indebolirsi della coesione tra i gruppi sociali dominanti … la sua indagine è di carattere storico politico; ingloba il momento economico ma non lo considera mai decisivo". Perciò l'egemonia del proletariato "era intesa come direzione solidale delle masse operaie e contadine e si giocava, prima ancora che sul piano economico, sul terreno culturale e politico … (e) dipendeva, in ultima analisi, dalla capacità del Partito comunista di (promuovere) … un nuovo equilibrio fra tutte le classi per trasformare lo stato centralistico post-risorgimentale in uno stato federale". Naturalmente la "lettera" del 1926 pone solo "alcune premesse fondamentali" di questa elaborazione ma solo a partire da qui si può intravedere il fondamento del "contrasto insanabile" tra il marxismo di Gramsci e quello prevalente nell'Internazionale comunista.
E questa chiave consente anche una innovativa lettura del rapporto con Togliatti, che ha nella polemica del 1926 un punto assai alto, e consente di comprendere perché il metodo della "analisi differenziata" che è in radicale opposizione al "finalismo fatalistico", dell'Internazionale comunista, sia stato collante unitario dell'intero gruppo dirigente del PCdI e ne abbia caratterizzato l'elaborazione anche negli anni bui dello stalinismo.
Basta pensare alla discussione nella Commissione italiana nel corso del X Plenum dell'Internazionale comunista (nel corso della quale Togliatti sostenne l'esigenza di affrontare l'analisi della situazione italiana proprio con il metodo dell'analisi differenziata sia nel rapporto con la socialdemocrazia sia nella organizzazione dello stato, paragonando il modello decentrato plausibile in Italia e quello centralistico dominante nell'esperienza francese).
Le posizioni dell'Internazionale sono accolte dal PCdI solo per "disciplina". Non casualmente il verbale della commissione fu lungamente sepolto negli archivi dell'Internazionale comunista. Basta pensare alla discussione tra i detenuti comunisti sulle modalità della "svolta" imposta dall'Internazionale ("corre e si rafforza fra i nostri gruppi nelle carceri la voce che Antonio dissenta radicalmente dalla linea del partito … sull'evenienza del periodo di transizione" scrive Terracini al centro estero del partito, dal carcere di Castelfranco Emilia).
E l'emergere di quel dissenso, intollerabile per l'Internazionale, che avrebbe cancellato l'elaborazione gramsciana dal patrimonio del partito venne gestito da Togliatti. Lo documenta Athos Lisa in relazione all'informazione fornita al Centro estero del PCI sulla "politica enunciata da Gramsci" (da lui incontrato nel carcere di Turi). Scrive Lisa "al termine della mia relazione, sulla quale non vi furono osservazioni … fui invitato a non far parola con nessuno di quanto avevo relazionato". Anche quel memoriale rimase lungamente ignoto.
Non così il pensiero di Gramsci che, accortamente recuperato, pervade l'esperienza del "partito nuovo", che, partendo da tali basi si radica profondamente nella società italiana all'indomani della Resistenza e della Liberazione e fa del PCI un unicum nel panorama dei partiti comunisti.
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