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dimarts, 4 de març del 2008

B. Tierney, The Idea of Natural Rights. Studies on Natural Rights, Natural Law and Church Law 1150-1625,

He trobat a la xarxa aquesta referència del llibre de B. Tierney "La idea dels Drets Naturals. Estudis sobre Drets Naturals". Es una recensió de la edició italiana de 2002. No he trobat, pel moment edició francesa, que és l'altre idioma en que podria llegir-la. Per suposat pel moment tampoc cap referència en espanyol ni català. Publico la ressenya pel seu interès i sol·licito, cas que algú llegeixi això , informacions sobre possibles traduccions del llibre de Tierney o bé d'altres llibres en un idioma accessible al meu.

Joan

B. Tierney, The Idea of Natural Rights. Studies on Natural Rights, Natural Law and Church Law 1150-1625, Scholar Press of Emory University, Atlanta (Georgia) 1997, trad. it. L'idea dei diritti naturali. Diritti naturali, legge naturale e diritto canonico 1150-1625, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 506, ISBN 88-15-08941-1

«Il linguaggio dei diritti naturali soggettivi è divenuto un tema così centrale e distintivo del discorso politico occidentale che è importante sapere quando e come l'aggregato di idee che esso porta con sé sia sorto, ossia quali contesti storici ne abbiano garantito l'articolazione e la sopravvivenza» (p. 133). È l'intento di questo volume rigoroso, che pretende - e a ragione - di avere un posto di rilievo nel dibattito relativo ai diritti umani, in quanto fornisce una accurata ricostruzione storica della nascita del linguaggio a essi relativo.

L'oggetto principale del lavoro è costituito dalla critica della teoria, diffusa soprattutto per opera di Michel Villey, secondo cui il linguaggio moderno dei diritti sarebbe nato con la filosofia nominalistica di Guglielmo da Ockham. Convinzione di Tierney, invece, è che quel linguaggio sia nato ben prima di Ockham, il quale avrebbe solo utilizzato un vocabolario già consolidatosi all'interno della giurisprudenza umanistica e canonistica del XII e del XIII secolo. Per Tierney - a differenza di Villey, la cui teoria è ricostruita nel capitolo I del volume -, non è affatto necessario che si verifichi una rivoluzione sul piano della metafisica e del pensiero puro affinché si realizzi un cambiamento di paradigma nel pensiero giuridico e politico. Perciò, non è stato necessario attendere la filosofia nominalista di Ockham perché si affermasse il linguaggio dei diritti soggettivi. Tierney constata, difatti, che «all'interno del pensiero medievale furono propugnate idee fondamentalmente simili sui diritti naturali da parte di filosofi - tomisti, scotisti e occamisti - che avevano delle concezioni molto dissimili riguardo agli universali e alle essenze» (p. 21).

La critica più rilevante di Tierney a Villey, per la teoria dei diritti, riguarda la compatibilità tra i diversi significati di ius, esclusa decisamente dall'autore francese. Il diritto oggettivo classico (ius come ordine giusto), la legge morale naturale (ius come lex) e il diritto soggettivo moderno (ius come potere), non sono affatto incompatibili tra loro, stando a quanto Tierney cerca di dimostrare riportando i testi di una serie di autori che, pur mantenendosi fedeli all'insegnamento tomistico, hanno tranquillamente affiancato la nozione soggettiva alle due nozioni precedenti. A questo proposito, Tierney osserva correttamente che «affermare un ordinamento giusto delle relazioni umane significa presumere una struttura di diritti e doveri». Se si parla del rapporto tra genitori e figli, ad esempio, possiamo definirlo «nei termini di un ordine oggettivamente giusto; oppure possiamo definirlo nei termini di un precetto morale - "Onora il padre e la madre"; ma possiamo anche definire lo stesso rapporto dicendo che i genitori hanno diritto ad essere rispettati dai loro figli» (p. 56). Ciò che Tierney non rileva, però, è che sostenere l'una o l'altra cosa ha come conseguenza uno spostamento di accento che produce conseguenze rilevanti sul modello sociale, o che quanto meno raffigura modelli di società e di legame tra gli individui spesso profondamente differenti l'uno dall'altro.

Comunque, all'«universo manicheo» di Villey, nel quale «c'è un mondo di pensiero aristotelico, che è pieno di luce e di soave ragione, e un mondo di pensiero occamista, in cui tutto è tenebra e cieco volere» (p. 53), Tierney contrappone una visione più conciliata, in cui cadono alcune delle convinzioni più diffuse concernenti la storia dei diritti soggettivi. La prima di queste convinzioni a essere messa a dura prova è quella già ricordata che riconduce al pensiero di Ockham l'origine di una consapevole - e per la prima volta esplicita - teoria dei diritti. Testi alla mano Tierney mostra come, a partire dal XII secolo, «la società medievale era completamente permeata dall'attenzione per i diritti» (p. 87), dal livello più alto, in cui papi e imperatori affermavano i proprio diritti l'uno contro l'altro, ai livelli inferiori, in cui, ad esempio, i glossatori civilisti parlavano del dominio trattandolo come un vero e proprio diritto soggettivo. In particolare, ciò che si veniva affermando in modo sempre più chiaro, era la connessione tra ius e potestas. Soprattutto per opera dei canonisti, che a partire dalla metà del XII secolo lavoravano al commento del Decretum di Graziano, si accumularono diversi significati di ius, tra i quali vennero presto ad emergere quelli secondo cui ius indicava «una certa forza» (Rufino) o «una certa forza o potere naturalmente istillato nell'uomo» (Sicardo da Cremona), significati che erano destinati a sfociare nell'idea che ius indicasse soprattutto «una facoltà o un potere in accordo con la retta ragione» (Gerson). Certo senza immaginare che «tale linguaggio giustificasse un universo morale in cui ciascun individuo potesse perseguire il proprio vantaggio senza farsi scrupoli» (p. 118), i canonisti cominciarono ad usare il termine ius per indicare una sfera personale in cui esercitare legittimamente una scelta autonoma.

Il momento in cui questo tipo di linguaggio fu fissato nei suoi termini più precisi è segnato dalla disputa sulla povertà che, nella prima metà del XIV secolo, oppose i francescani ai sostenitori di Giovanni XXII, come è ormai noto, dopo la notevole quantità di studi a essa dedicati negli ultimi tempi. Tierney ricostruisce le diverse fasi della disputa al fine di notare soprattutto, nuovamente in polemica con Villey, che quanto Ockham venne sostenendo non era affatto farina originale del suo sacco, ma era tratto «da un "paniere" comune di argomentazioni francescane» (p. 151) e proveniva spesso dai suoi stessi avversari nella disputa. In questo contesto, secondo Tierney, è a Marsilio da Padova che va riconosciuto il merito di aver formulato per la prima volta esplicitamente la distinzione tra ius come diritto oggettivo e ius come diritto soggettivo (una distinzione che Ockham ignora del tutto), mentre ad Ockham va invece attribuita la distinzione, interna ai diritti soggettivi, tra diritti naturali e positivi (ius poli e ius fori): qui Ockham traduceva nel linguaggio dei diritti soggettivi una distinzione che Agostino aveva riferito al diritto oggettivo.

Pur rivolto a ridimensionare il ruolo storico svolto da Ockham, il libro di Tierney dedica alle teorie del filosofo francescano una gran parte delle sue pagine. Del pensiero di Ockham, l'a. cerca di cogliere il significato più pieno collocandolo all'interno di tre contesti, connessi ma differenti: le contese storiche in cui furono elaborate, le riflessioni filosofiche e teologiche precedenti alla formazione della teoria politica, le fonti canonistiche alle quali faceva riferimento. Ne deriva l'immagine di un autore più razionalista e meno volontarista di quanto in genere non si ritenga; e di una teoria in cui l'aspetto filosofico e teologico non necessariamente condiziona l'aspetto giuridico e politico. Anzi, per Tierney la diffusa convinzione secondo cui «le speculazioni dei filosofi e dei teologi sul modo in cui coesistono ragione e volontà [vengono] trasferite di peso nelle riflessioni più terrene sul diritto e sulla politica degli stessi autori» (p. 288), è del tutto sbagliata e non suffragata da prove storiche che ciò sia effettivamente successo.

Il percorso storico seguito da Tierney prosegue poi con l'analisi del pensiero di autori che hanno avuto, a parere dell'a., il grande merito di trasmettere il linguaggio dei diritti all'epoca moderna: Gerson, Almain, Mair, Summenhart, De Vitoria, Suarez e Grozio. Nei capitoli a essi relativi, ciò che Tierney vuole dimostrare è che un nucleo teorico già consolidato è stato adattato di volta in volta alle esigenze di particolari battaglie ideologiche (come ad esempio quella relativa agli indiani d'America), senza perdere nulla dei suoi caratteri iniziali: e cioè la definizione di uno spazio giuridico soggettivo e la sua perfetta compatibilità con uno ius oggettivo. Alla fine della catena, Tierney pone la figura di Grozio, presentata come ultimo anello di congiunzione tra la cultura cattolica, nella quale si era formata l'idea dei diritti naturali, e la cultura protestante, nella quale quella idea sarebbe poi stata sviluppata. In questo senso, Grozio assume le sembianze paradigmatiche di un autore che "non ha inventato nulla" ma che ha saputo utilizzare il patrimonio di idee degli autori che lo avevano preceduto: continuatore delle dottrine medievali, per quanto riguarda sia l' "ipotesi empia", sia il contenuto della sua dottrina giusnaturalistica, seppe però, grazie alla sua originalità, adattare questi contenuti ai tempi nuovi, garantendone il passaggio alla modernità.

Nella breve conclusione del volume, Tierney si concede una incursione nel dibattito teorico per rilevare due problemi principali relativi ai diritti umani: il primo consiste nell'«inflazione quasi assurda del linguaggio dei diritti», la quale «può erodere qualsiasi senso della comunità e del bene comune, valori che i primi teorici dei diritti non persero mai di vista» (p. 493); il secondo è relativo alla scarsa efficacia delle Dichiarazioni dei diritti, considerato il fatto che «in molte parti del mondo anche i diritti più elementari sono completamente negati ai cittadini». A questo proposito Tierney, che pure col suo volume pensa di aver dimostrato inoppugnabilmente che il linguaggio dei diritti è nato nell'ambito della cultura occidentale, respinge i timori di quanti vedono la diffusione di tale linguaggio come un pericoloso ritorno del colonialismo: «l'origine occidentale del linguaggio dei diritti di per sé non preclude la possibilità che gli ideali e le aspirazioni sottostanti propri di tale linguaggio possano dimostrare di avere significato universale» (p. 494). La teoria dei diritti ha come unico fondamento necessario «la credenza nel valore e nella dignità della vita umana», che accomuna tutte le grandi religioni.

Lasciando da parte i problemi aperti da questa conclusione universalistica, basata anche sulla considerazione che «i bisogni umani ai quali rispondono i diritti umani non sono peculiari dei popoli occidentali», l'utilità di questo volume consiste prevalentemente nella documentatissima ricerca sulle fonti; da questo punto di vista, difficilmente si potrà prescindere dalle sue conclusioni quando si dovrà affrontare la tematica storica dei diritti naturali. Qualche difficoltà rimane in relazione sia alla sistematizzazione del pensiero degli autori, spesso inseguiti fino a coglierne le minime sfumature, ma raramente tratteggiati in sintesi efficaci; sia con riguardo alle conclusioni teoriche che il percorso storico compiuto non può non comportare e che però non sempre vengono esplicitate: il caso più eclatante è proprio quello relativo al rapporto tra lo ius inteso come diritto soggettivo e come diritto oggettivo. Attento a fornire accurate ricostruzioni storiche, Tierney finisce per non dare il giusto rilievo a un concetto importante, spesso dimenticato anche nel dibattito contemporaneo: che la nozione di diritto soggettivo non può stare in piedi senza quella di diritto oggettivo o, per dirla in termini diversi, che non possono esserci diritti senza l'affermazione di doveri corrispondenti.

Tommaso Greco

http://www.juragentium.unifi.it/it/books/tierney.htm